Secondo la Cgil, in Italia l’elevato numero di medici obiettori di coscienza finisce per avere effetti negativi sia sulle donne che vogliono ricorrere all’aborto, sia sul personale medico non obiettore che si ritroverebbe a dover sostenere tutto il carico di lavoro necessario a garantire l’accesso all’interruzione di gravidanza.
Anzitutto il ricorso si fonda su chiacchiere non dimostrate da alcun numero, come l’affermazione secondo la quale gli obiettori farebbero carriera più facilmente degli altri e aggraverebbero il carico di lavoro dei non obiettori. E si sostiene che le donne abbiano difficoltà ad accedere all’aborto, per via del fatto che non si pratica in tutti gli ospedali pubblici. Ma la realtà è ben diversa: non esiste alcun caso in cui sia stato negato l’aborto. I dati del ministero della Salute mostrano che l’interruzione volontaria di gravidanza è uno dei servizi più garantiti nel nostro paese, mai peggiorato negli anni. Infatti, nel 95 per cento dei casi l’aborto viene effettuato entro tre settimane dal momento in cui è praticabile (a partire da una settimana dopo la richiesta), nonostante il 90 per cento degli interventi non sia urgente. Le donne hanno sette giorni circa per organizzarsi, se devono recarsi in una struttura della propria città che magari non è quella più vicina a casa. Il problema quindi non esiste, i numeri dimostrano che da sempre le donne in gran parte scelgono volontariamente di abortire in ospedali o cliniche lontani dalla propria abitazione. Purtroppo l’efficienza del sistema-aborto è altissima; per di più è tutto gratuito e non vi sono difficoltà di accesso per le donne straniere, come dimostra il loro numero che aumenta ogni anno.
La Cgil propone come soluzione l’istituzione di concorsi pubblici per i non obiettori.
Così gli obiettori sarebbero discriminati per avere esercitato un diritto costituzionale, riconosciuto anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre il medico che decidesse, una volta assunto, di smettere di praticare gli aborti verrebbe licenziato e quindi gli sarebbe negata la possibilità di seguire la propria coscienza e la propria fede.
Cosa dicono le norme usate dal sindacato per sostenere la propria tesi?
Sono norme della Carta sociale europea, che si basa appunto sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma la Cgil le interpreta a prescindere da quest’ultima e in modo assolutamente arbitrario. Addirittura si rifà a una norma sul lavoro forzato dei detenuti per rinforzare strumentalmente l’idea che i medici non obiettori siano costretti ingiustamente a fare solo aborti per la mancanza di personale. Non solo: per garantire la dignità lavorativa dei medici che effettuano aborti, la Cgil chiede che, in un modo o nell’altro, l’obbligo sia imposto anche ad altri. È una vera contraddizione. I medici obiettori sanno bene come si garantisce la dignità del medico: non effettuando aborti, perché il medico è chiamato a curare, non a sopprimere bambini.
Una volta relativizzata la prima realtà e il primo diritto, cioè la vita, tutto diventa opinabile.
Per questo abbiamo sottolineato che uno Stato che permette l’uccisione di bambini innocenti ha già un deficit di democraticità. E sarebbe ancora più grave se il Comitato dovesse dare ragione alla Cgil: obbligare i medici per legge a praticare l’aborto sarebbe un provvedimento da Stato totalitario. Per fortuna che un eventuale verdetto del Comitato in questa direzione avrebbe un effetto solo esortativo e non vincolante per il nostro paese… Noi abbiamo richiamato una delibera dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 2010 che parla chiaramente: «Nessuna persona può essere costretta a praticare la soppressione di un bambino o di un embrione e nessuno può essere discriminato in qualunque modo in conseguenza del suo rifiuto a praticare un aborto». Oltre a tutelare la vita dei bambini e la coscienza dei sanitari, dobbiamo anche difendere la democrazia.