LA REGIONE LOMBARDIA CONDANNATA PER ESERCIZIO DI OBIEZIONE ANTI-EUTANASIA

di Franesco Mario Agnoli

   Prima del commento  alla sentenza (n. 5650/2016) con la quale in data  5 aprile 2016 il TAR lombardo ha  condannato la Regione  Lombardia al risarcimento dei danni cagionati  al cittadino  indicato in sentenza  come “Omissis” una  premessa . Premessa resa opportuna dalla decisione del Tribunale  di avvalere del disposto  dell’art 52/comma 1 del D. Lgs. n. 196/2003, sicché “a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di provvedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare Omissis”. Non si è però  considerato  che, per le forti  polemiche a suo tempo suscitate e ampiamente riportate dai mass-media (e tutt’altro che risolte per quanto riguarda la sottostante visione del mondo e gli stessi principi fondanti del nostro ordinamento giuridico), la vicenda a monte della richiesta  di risarcimento danni e del conseguente  provvedimento   è tuttora vivissima nella memoria collettiva sicché per adempiere  la Segreteria  avrebbe dovuto omettere  più o meno l’intera motivazione. Non potendo ovviamente adottare questa soluzione, la mandataria si è limitata a sostituire con “Omissis”  il nome dell’attore, sicché i mass-media  che (anche loro sull’onda dei precedenti  dibattiti e controversie)  nel dare notizia della sentenza  hanno all’istante individuato i protagonisti   e indicato nome e cognome   di “Omissis”, che invece, per rispetto dell’ordine del Tribunale, sarà qui utilizzato pur nella consapevolezza dell’inutilità  di questo “oscuramento” dato che l’esame critico della decisione non  può prescindere, riprendendola dalla sentenza stessa, da una pur breve narrativa dell’antefatto..

    Nella narrativa  il Tribunale ha anzitutto premesso di essersi già occupato della vicenda  con la sentenza n. 214/2009, con la quale, in accoglimento del ricorso  proposto da “Omissis”  nella sua qualità di tutore della propria figlia, maggiorenne, ma   in stato di coma vegetativo permanente, aveva annullato  la nota in data 3 settembre 2008, con la quale la Regione Lombardia  aveva respinto la  richiesta di messa a disposizione di una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico applicato alla giovane donna per alimentarla ed idratarla, richiesta fondata sull’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano con decreto del 9 luglio 2008.  Già in quella sentenza il Tribunale  aveva evidenziato come il provvedimento impugnato avesse illegittimamente leso il diritto costituzionale di rifiutare le cure riconosciuto dalla sentenza della Cass. Civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, quale diritto di libertà assoluto. Questa prima sentenza del TAR, impugnata dalla Regione dopo il decesso  della figlia del ricorrente, avvenuto il 9 febbraio 2009 a Udine, era stata confermata dal Consiglio di Stato   con la decisione n. 4660/2014 .

    Con il ricorso  che ha dato luogo al procedimento concluso  dalla sentenza in esame il ricorrente,   in proprio e nella  qualità di tutore della figlia defunta, ha riproposto la domanda  di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale,  già avanzata nel giudizio concluso dalla  ricordata sentenza n. 214 del 2009 e in quella sede rinunciata (rinuncia – precisa il Tribunale in motivazione su eccezione di inammissibilità/improcedibilità sollevata dalla Regione – alla domanda risarcitoria, non all’azione).

     In ordine alle domande risarcitorie svolte il TAR Lombardia ha  dichiarata inammissibile      quella  proposta nella  qualità di tutore  per carenza di legittimazione attiva, venuta meno a seguito del decesso dell’incapace rappresentata. Sul punto nulla quaestio.  Ha invece ritenuto la sussistenza della responsabilità della p.a. (nella fattispecie la Regione Lombardia) in ordine  ai danni cagionati  da un provvedimento illegittimo, richiamando sul punto quella giurisprudenza (in particolare Consiglio di Stato, VI 14/3/2005 n. 1047), secondo la quale “la responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile”, quindi qualcosa di diverso tanto dalla responsabilità extracontrattuale, fondata  sul rispetto del dovere generale del neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva meritevole di protezione giuridica, quanto dalla responsabilità contrattuale, che presuppone la violazione di un precedente rapporto giuridico fra le parti con posizioni riconducibili alla categoria del diritto soggettivo relativo.

  Quanto alla responsabilità  extracontrattuale  quella della p.a. – scrivono i giudici milanesi – presuppone che il comportamento illecito si inserisca nell’ambito di un procedimento amministrativo, nel quale “l’amministrazione deve osservare predefinite regole, procedimentali e sostanziali, che scandiscono le modalità di svolgimento della sua azione” sicché  l’esercizio del potere autoritativo “non è assimilabile alla condotta di chi – con un comportamento materiale o di natura negoziale – cagioni un danno ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal diritto privato (e la cui tutela è prevista dagli articoli 2043 e ss. del codice civile)” (Cons. Stato, VI, n. 1047 del 2005)”.  Rispetto invece alla responsabilità contrattuale, “sono diverse le posizioni soggettive, che si confrontano: da un lato, dovere di prestazione (o di protezione) e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo”. Ne consegue che  “in definitiva, la peculiarità dell’attività amministrativa – che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e sostanziali a tutela dell’interesse pubblico – rende speciale, per le ragioni indicate, anche il sistema della responsabilità da attività illegittima” (Consiglio di Stato, VI, 29 maggio 2014, n. 2792; altresì, 27 giugno 2013, n. 3521)”. In conclusione: “Gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a. sono rappresentati, quindi, dall’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo (colpevolezza o rimproverabilità), dal nesso di causalità materiale o strutturale e dal danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo. In particolare, il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati (cfr. Consiglio di Stato, VI, 27 giugno 2013, n. 3521).

   Sulla basse di questa motivazione, corretta in punto di diritto, ma – come subito si dirà  – in parte superflua, in parte monca per quanto riguarda  le  domande  inerenti al danno morale/esistenziale svolte nella fattispecie, il TAR ha  condannato la  Regione Lombardia al risarcimento del danno patrimoniale quantificato in  € 12.965,78, della cui spettanza non può dubitarsi una volta accertata dalle precedenti decisioni della giustizia amministrativa l’illegittimità del rifiuto opposto dalla  Regione e la conseguente inevitabilità e congruità (se accertata) delle spese sostenute.

   Quanto al danno non patrimoniale questo era stato richiesto  dal ricorrente, nella veste di genitore e tutore della persona cui è stata rifiutata l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione, sia a titolo di erede (quindi ex diritto  sorto in capo alla figlia), sia  iure proprio sotto il duplice  profilo  del  danno  morale soggettivo da lui patito  e del danno per lesione del rapporto parentale. E’ evidente che tutti i tre capi  comportavano, per l’accoglimento o la reiezione, l’applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di risarcimento del danno non patrimoniale,  inclusa la voce di danno  richiesta iure ereditario, il cui accoglimento presuppone, come detto,   l’esistenza del diritto del risarcimento in  capo alla de cuius  (la figlia deceduta).

   Si tratta, tanto per l’importo delle domande quanto per i problemi che mette  in gioco, del cuore della controversia, ma abbastanza singolarmente i giudici milanesi, dopo avere  dato fin troppo  spazio   alle particolari caratteristiche della responsabilità della pubblica amministrazione (in fondo per   quanto riguarda il danno patrimoniale l’applicazione pura  e semplice  dell’art. 2043 sarebbe stata senza dubbio meno corretta, ma avrebbe portato ad identico risultato), vi hanno dedicato una    motivazione alquanto contenuta, pur se sorretta da esatti (quasi tutti) richiami giurisprudenziali (in particolare SS.UU. Cass.  n. 26972008), al punto che un’unica volta (paragrafo 7.4) e  con riferimento ad uno solo dei capi di domanda accolti,  viene indicata la disposizione, (art. 2059 c.c.), di cui viene fatta applicazione. In conseguenza  non è fuor di luogo rammentare il principio fondamentale sancito (riprendendolo e meglio esplicitandolo da precedenti decisioni della Corte) dall’appena ricordata decisione selle SS.UU attraverso l’interpretazione costituzionalmente orientata dall’art. 2059: “Il risarcimento del danno  patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualunque interesse giuridicamente rilevante, mentre quello da danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona”.  Il danno morale può, quindi, essere risarcito solo se si tratta di danno da reato (era questa anzi l’unica ipotesi ammessa al risarcimento dalla giurisprudenza fino  alle sentenze gemelle n.ri 8827 e 8828/2003) o  di danno conseguente a lesione di un diritto inviolabile della persona (deve trattarsi cioè di un’ingiustizia  costituzionalmente qualificata). Tali principi sono stati pienamente  recepiti dalla giurisprudenza amministrativa (per tutte Cons. Stato, V,  sentenza n.3397 del 20/5/2010) per quanto riguarda la responsabilità della pubblica amministrazione in applicazione dell’art. 2059  (anche il TAR, pur con qualche deficit motivazionale, non si discosta da questa linea nella decisione in commento).

   Alla luce di quanto appena detto si comprende meglio la ragione per la quale   è stata respinta la domanda  avente ad oggetto il danno morale soggettivo. Difatti  il ricorrente non ha accampato (e tanto meno provato) come causa della lamentata lesione un reato la cui responsabilità possa essere addossata alla Regione o –  si può aggiungere – la violazione, anche non da reato, di un diritto costituzionalmente garantito (in realtà di questo secondo aspetto non vi è cenno  in motivazione, che  si limita ad affermare: “i danni asseritamente subiti a causa di tali comportamenti possono essere fatti valere soltanto in un autonomo giudizio civile o attraverso la costituzione di parte civile in un procedimento penale”).

   Il TAR ha invece accolto l’altra domanda svolta  jure proprio dal ricorrente per il risarcimento della lesione alle relazioni familiari e al rapporto parentale (cd. danno esistenziale). La ricorrenza e la   risarcibilità dio tale tipo di danno, alla luce dei principi prima enunciati e delle decisioni che  avevano accertato  il diritto alla sospensione  dei trattamenti di nutrizione e idratazione  e, conseguentemente, l’illegittimità del rifiuto della Regione di darvi attuazione, sono state riconosciute dal Tribunale milanese dal momento che, con richiamo appunto  a Cass. SS.UU. 11 novembre 2008, n. 26972, così scri9ve in motivazione: “si tratta di un pregiudizio a diritti fondamentali che trovano la loro fonte diretta nella Costituzione, atteso che nell’art. 2059 c.c. trova adeguata collocazione anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto)”.

  Allo stato attuale della legislazione e della giurisprudenza il commentatore deve, in mancanza di argomenticontrari di diritto positivo, condividere l’opinione dei giudici amministrativi di Milano dal momento che è ragionevolmente presumibile (cfr. Cass.  n. 9834/2002 sulla sufficienza della prova presuntiva anche come unica fonte del convincimento del giudice) che,   in fatto,  il rifiuto della Regione Lombardia  abbia negativamente inciso su  una situazione familiare  già funestata dalla presenza di una figlia da  17 anni in stato vegetativo a seguito di un incidente stradale col riportare in alto mare una situazione che i familiari  avevano motivo di giudicare definitivamente risolta in conformità a quella  che loro ritenevano e i giudici avevano ricostruito essere  la volontà della  figlia. Tuttavia è alquanto sorprendente e logicamente contraddittorio, pur se forse inevitabile (la logica del buon senso non  sempre coincide con quella del diritto),  che un principio stabilito con riferimento alla morte  di un congiunto venga applicato all’ipotesi opposta del prolungamento della sua esistenza fisica.

  Si può, ovviamente ritenere eccessiva la liquidazione in € 100.000,0 0 del danno, ma niente è più opinabile delle liquidazioni in via di equità, d’altronde inevitabili in simili casi.

     Accolta anche la domanda  proposta da Omissis jure ereditario, il che comporta che il Tribunale, alla luce dei pronunciamenti giurisprudenziali che, con riferimento al caso specifico, avevano riconosciuto “l’incompatibilità di uno stato vegetativo con lo stile di vita e i convincimenti profondi riferibili alla persona, correlati ai fondamentali diritti di autodeterminazione e di rifiutare le cure”, abbia  ritenuto  il diritto al risarcimento  maturato in capo alla figlia come conseguenza della violazione di tali suoi diritti. Difatti  – motiva  il Tribunale – “il rifiuto espresso dalla Regione Lombardia con l’atto dirigenziale del 3 settembre 2008, contenente il diniego di ricovero al fine di sospendere il trattamento di idratazione e alimentazione artificiale – annullato con la sentenza di questo Tribunale n. 214 del 2009, confermata dalla decisione del Consiglio di Stato n. 4460 del 2014 –, ha determinato la lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute, così come ricostruito nelle sentenze che li hanno riconosciuti (c.d. diritto di staccare la spina: da ultimo, Cass., SS.UU, 22 dicembre 2015, n. 25767), e la lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale; le lesioni sono state aggravate dalla circostanza che, nemmeno dopo la pronuncia di questo Tribunale, la Regione ha messo a disposizione una struttura per eseguire quanto statuito nelle diverse sedi giurisdizionali. Si tratta poi di danno conseguenza, ossia di lesione che ha avuto degli effetti, seppure di tipo non patrimoniale, giacché non è stata rispettata la volontà del soggetto interessato – per come ricostruita dalla Corte d’Appello – di voler mettere fine ad un trattamento sanitario; ciò rappresenta una palese violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. (Corte costituzionale, sentenza n. 438 del 2008; Cass. Civ., III, 12 giugno 2015, n. 12205)”.

   Tuttavia, pur se la descritta situazione conferma  la potenziale esistenza  di un danno non patrimoniale risarcibile in capo alla giovane donna, il Tribunale ha  omesso di valutare la presenza nel caso concreto degli elementi indispensabili per accertare se questo danno (che riguarda – ripetesi – non il padre, ma la figlia) si  fosse in concreto  effettivamente verificato  e, in subordine,  per determinarne la quantificazione fissata dal TAR nella somma complessiva di € 60.000,00, poi ridotta (con una motivazione scarsamente intelligibile senza disporre degli atti di causa) ad un terzo, quindi  ad € 20.000,00 (aumentata – s’ignora per quale motivo, se non si tratta di un errore di battitura – a  € 30.000,00, nel paragrafo n.8 della motivazione), “perché quale danno a titolo ereditario, va ridotto avendo riguardo alla possibile presenza di altri eredi, del cui numero non vi è certezza (fatta eccezione per la madre; cfr. art. 571 c.c. sulla contemporanea presenza di più soggetti aventi diritto all’eredità): pertanto appare equo ridurre la somma ad un terzo”.

  Se si tiene presente la  ormai consolidata definizione del danno morale quale “pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva in sé considerata, la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento” riesce difficile capire  come un essere umano descritto dalla sentenza in commento  (e ancor prima da quelle che, proprio per questo,  ne hanno consentito la soppressione fisica eutanasica) in coma vegetativo da  diciasette anni abbia potuto  avvertire una “sofferenza soggettiva”  causata dalla “lesione del diritto all’autodeterminazione in ordine alla libertà  di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute, così come statuito nelle sentenze che li hanno riconosciuti”. Ancor più arduo intendere  in qual modo  queste “lesioni siano state aggravate dalla circostanza che nemmeno dopo la pronuncia  di questo Tribunale, la Regione ha messo a disposizione una struttura per eseguire quanto statuito  nelle diverse sedi giurisdizionali”, provvedimenti tutti dei quali la vittima mai ha avuto notizia. Si è appena detto che l’intensità e la durata della sofferenza soggettiva non hanno influenza sull’esistenza del danno, ma nella fattispecie è mancata proprio la sofferenza soggettiva, non determinatasi, per le particolarissime  circostanze del caso concreto,  nemmeno per quel minuscolo  attimo nel quale  verrebbe sempre,  perfino nel caso di morte istantanea, dolorosamente percepita la cessazione della vita

 Indubbiamente la  situazione descritta dal Tribunale evidenzia un mancato “rispetto della volontà  del soggetto interessato – per come ricostruita dalla Corte d’Appello – di voler mettere fine a un trattamento  sanitario (…) palese violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost.”, mancato rispetto  in astratto suscettibile di determinare “un danno conseguenza di lesione (…) con effetti sia pure di tipo non patrimoniale”. Tuttavia nel caso concreto tali effetti, proprio perché di tipo non patrimoniale, cioè di carattere psicologico soggettivo, non possono essersi determinati  nella vittima a causa del suo stato, tale da   rendere impossibile qualunque percezione  di questo tipo. La  forza del diritto, da sempre capace di “facere de albo nigrum” e di “aequare quadrata rotundis”,  può  costringerci  a credere  a (o a comportarci come se ci credessimo) all’esistenza di una volontà e di un rifiuto non espressi in presenza di una situazione concreta e ricostruiti  dai giudici con riferimento a contesti totalmente diversi, ma certamente  non a credere capace  di sofferenza psichica  per il mancato rispetto di questa sua ricostruita volontà  un essere umano nelle condizioni descritte proprio da quei provvedimenti giurisdizionali. Se il rifiuto della Regione Lombardia ha determinato  danni morali  si tratta  di quelli esistenziali sofferti da Omissis e  risarciti dal TAR, la liquidazione di una ulteriore somma per danno jure ereditario ne costituisce, di fatto,  una indebita duplicazione.

   Un’ultima osservazione  a proposito del passaggio della sentenza nel quale i giudici milanesi, dopo aver rilevato l’impossibilità “che lo Stato ammetta che alcuni suoi organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le sue leggi e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in quanto questo comporta una rottura dell’ordinamento costituzionale non altrimenti sanabile”, aggiungono, con sfoggio di presunta  laica moralità e appoggiandosi sull’autorità del Consiglio di Stato: “né, a tal fine, si possono invocare motivi di coscienza, in quanto, come evidenziato dalla pronuncia del Consiglio di Stato (punto 55.6), a chi avanza motivi di coscienza si può e si deve obiettare che solo gli individui hanno una “coscienza”, mentre la “coscienza” delle istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano”.

  Si dà il caso  che le istituzioni siano rappresentate da persone fisiche. Nella fattispecie il criticato provvedimento di rifiuto  è stato firmato dal Direttore Generale della Sanità lombarda”, quindi da un individuo, in possesso in quanto tale di una coscienza non meno dei medici che, pur inseriti nel Servizio  Sanitario Nazionale e nelle Aziende Sanitarie Regionali, esprimono obiezione di coscienza. Tutto quello che i giudici amministrativi milanesi avrebbero potuto fondatamente asserire (sempre che non si ritenga che il relativo diritto   sia desumibile in via generale dalle Dichiarazioni Universali dei Diritti e dalla stessa Costituzione italiana) è che la legge non prevede espressamente l’obiezione di coscienza per gli organi amministrativi regionali.

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