IN #NOTA ALL’ARTICOLO DI ETTORE GOTTI TEDESCHI
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- Pubblicato Sabato, 20 Febbraio 2016 12:42
di Gianfranco Amato
Spendido. Questo è l’aggettivo che sono riuscito a trovare quando ho finito di leggere l’ultima parola dell’editoriale de “Il Giornale” pubblicato nei giorni scorsi a firma del grande Ettore Gotti Tedeschi. Nel titolo era racchiuso tutto il ragionamento dell’ex Presidente dello IOR: Altro che partito, ai cattolici non resta che Medjugorje.
Con un pizzico di disincantato pessimismo, in quell’editoriale viene decretato il definitivo divorzio tra fede e politica. Ormai lo scenario globale è tale da rendere vano e velleitario ogni tentativo di intervento in quel campo. Fine delle trasmissioni. Per i cristiani lo scenario politico è destinato a diventare un monoscopio con le otto bande colorate.
Confesso che l’interessante suggestione di Gotti Tedeschi ha rischiato di rappresentare per me una tentazione fortissima. Davvero in questo clima da ultimi tempi verrebbe la voglia di vestirsi di sacco, cospargersi il capo di cenere e mettersi in processione intonando un bel Dies Irae. Io, per la mia peculiare natura, sarei personalmente dibattuto su come vivere questo clima millenarista, oscillando tra il desiderio di rifugiarmi nel silenzio orante di una Certosa, e quello di scendere all’angolo della strada per declamare ad alta voce passi del Vade mecum in tribulatione di Giovanni da Roccascissa.
Peccato che dopo l’iniziale e affascinante scossa emotiva causata dalla lettura dell’editoriale sia giunta la fredda ragione. L’assunto di Gotti Tedeschi, al netto della provocazione stuzzicante, rischia, infatti, di evidenziare un limite.
Possiamo anche provare ad archiviare gli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa in materia, e dello stesso Magistero che, peraltro, si è recentemente pronunciato attraverso l’attuale Pontefice con il punto 205 dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, nel quale si insegna espressamente che «la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune». Quel punto, del resto, appare ben inserito nel solco della tradizione dei predecessori di Francesco, come si evince dall’espresso rinvio di nota alla celebre affermazione di Pio XI pronunciata il 18 dicembre 1927 nell’ Allocuzione alla FUCI: «Il campo più vasto della carità è quello della carità politica, del quale si può dire che nessun altro gli è superiore, salvo quello della religione». Gotti Tedeschi obietterà, forse giustamente, che quelle affermazioni rischiano di apparire oggi decontestualizzate, se consideriamo il clima apocalittico che stiamo vivendo. Sì però, c’è un però. Se anche facciamo lo sforzo di archiviare Tradizione, Dottrina Sociale e Magistero, come la mettiamo con il Vangelo? A me ha sempre preoccupato l’inquietante parabola dei talenti e la brutta fine del servo timoroso, quel poveraccio che, tutto sommato, aveva conservato quello che gli era stato consegnato. Non l’aveva mica speso divertendosi con prostitute e crapuloni. Basta anche a noi, quindi, mantenere la fede nella preghiera, o ci è chiesto qualcosa di più? Trafficare i talenti significa attendere rassegnati la fine dei tempi, o lottare fino all’ultimo respiro in difesa della Verità? Se questo ragionamento vale per me, che sono un quisque de populo al quale il buon Dio ha affidato solo un piccolo lepton (lo spicciolo della vedova), molto di più deve valere per una personalità del calibro di Gotti Tedeschi che ha ricevuto in consegna da Padreterno molti preziosi talenti.
Oggi il parlamento italiano è diventato il luogo in cui viene discussa la visione antropologica dell’uomo. Si decide come l’essere umano deve nascere (fecondazione artificiale), come deve morire (eutanasia), chi è (identità di genere), come si aggrega con i simili (famiglia), e così via. Può un cristiano, davvero, disertare un luogo simile? Può non avvertire il dovere di portare la luce della fede in un simile dibattito? Può lasciare che «le tenebre avvolgano la concezione dell’uomo» (come ha splendidamente profetizzato Giovanni Paolo II) anche a livello normativo, senza muovere un dito?
Può fare tutto questo senza correre il rischio che gli venga addebitata l’inerzia del servo pauroso della parabola dei talenti? La domanda non è oziosa, se pensiamo all’ammonimento di San Paolo nella lettera ai Romani, quando dice che tutti noi prima o poi dovremmo comparire davanti al «Tribunal Dei», (Rm 14,10) e ciascuno di noi a Dio dovrà «reddere rationem» (Rm 14, 12).
Forse – lo dico con assoluta umiltà –, il limite della visione pessimistica di Gotti Tedeschi sta nel ritenere che l’esito delle battaglie politiche sia nelle nostre mani. Questo è davvero un errore, perché sarebbe folle pensare che sia così. L’esito è in realtà nelle mani di Dio, e a noi spetta semplicemente essere meri strumenti dei Suoi disegni. Non importa, quindi, quante volte si può vincere o perdere. E anche quando, magari una volta su cento, capitasse di vincere, dovremmo sempre ricordarci che «servi inutiles sumus», perché abbiamo fatto quello che dovevamo fare, come ci insegna il Maestro.
Siamo quindi tutti chiamati a combattere umilmente per la Verità, senza escludere nessun ambito – neppure quello oggi screditato della politica –, nella consapevolezza che la guerra, in realtà, è già vinta. L’ha vinta Uno che si chiama Gesù Cristo.
Pubblicato su "La Croce Quotidiano" del 18 febbraio 2016