GENDER E UTERI AFFITTATI, PICCOLA STORIA IGNOBILE
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- Pubblicato Mercoledì, 15 Luglio 2015 02:04
di Gianfranco Amato
Se la teoria gender non esiste, qualcuno per cortesia avvisi Monica Cerutti, Assessore alle Pari Opportunità della Regione Piemonte. Sì, proprio quella che giustificando l’aberrante pratica dell’utero in affitto si è spinta a dichiarare quanto segue: «Legare i figli delle coppie omosessuali, se avuti con la fecondazione assistita, allo sfruttamento delle donne, nel caso si tratti di persone non abbienti, donatrici di ovociti, è francamente un’aberrazione, e affermare che il riconoscimento di diritti agli omosessuali avviene a danno delle donne è una bieca strumentalizzazione, frutto di una concezione malata della fecondazione assistita». Per la Cerutti la vita una povera disgraziata come la ragazzina minorenne indiana Susha Pandey non vale nulla rispetto al “diritto alla provetta eterologa” per le coppie gay. Proprio dalle colonne di questo giornale suggerimmo all’Assessore di uscire dalle sale di Palazzo Lascaris e di farsi un giro in India, per toccare con mano cosa significhi fame, disperazione e sfruttamento. Ma siamo ancora in attesa di un cortese cenno di riscontro.
Monica Cerutti è anche l’ineffabile Assessore che ha provveduto ad aprire una procedura presso il Centro Antidiscriminazione Regionale a carico della povera professoressa Adele Caramico, docente di religione all’ITIS “Pininfarina” di Moncalieri, falsamente accusata di “omofobia”. Peccato che dopo l’accertamento ufficiale e definitivo da parte delle autorità scolastiche dell’infondatezza di tali accuse, la Cerutti si sia dimenticata di chiede scusa alla professoressa Caramico.
Ebbene, cosa ha combinato ora la nostra impareggiabile Monica? Ha deciso di dedicarsi al “gender”. In virtù della sua delega istituzionale, infatti, è riuscita a far partorire dalla Giunta regionale la delibera 23 giugno 2015, n. 27-1613, avente per oggetto “Integrazione tesserino di riconoscimento per identità di genere”. Sulla lobby che ha fatto pressione per l’emanazione di quel provvedimento amministrativo non vi sono dubbi – né potevano essercene, per la verità –, dato che il preambolo della delibera lo ammette candidamente: «Considerata la richiesta pervenuta alla Regione Piemonte da parte del Coordinamento Torino Pride GLBT con la quale si chiede di introdurre per i propri dipendenti la possibilità di avere un tesserino di riconoscimento identificativo consono al genere d’elezione e che rispetti la propria identità di genere».
Spunta così, per la prima volta (a quanto pare), nel linguaggio burocratico un nuovo termine coniato dalla neolingua della lobby LGBT: «genere d’elezione». Sinceramente, non se ne sentiva la mancanza,ma tant’è. L’ideologia gender riesce a mostrare una fantasia neologistica davvero invidiabile.
La lettura della delibera rivela, inoltre, passaggi surreali davvero impressionanti. Dopo aver ricordato, infatti, la normativa in tema di rettifica di attribuzione di sesso, regolata dalla legge 14 aprile 1982 n. 164, la Giunta fa propria un discutibile e minoritario orientamento giurisprudenziale in materia. Si legge, infatti, nelle delibera: «Considerato che alcune sentenze hanno proposto un’interpretazione della suddetta normativa che,discostandosi dal dato letterale, consente la rettifica anagrafica del sesso anche in assenza di un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali».
Com’è noto, ormai, l’Italia si sta lentamente trasformando in un Paese di common law, con il vantaggio, a differenza dei paesi anglosassoni, che da noi ciascuno può scegliere a suo piacimento il precedente che più gli aggrada o conviene nel mare magnum dell’ondivaga, contraddittoria e multicolore giurisprudenza dei non pochi uffici giudiziari sparsi su tutto in territorio nazionale. Così ha fatto anche la Giunta regionale del Piemonte. La delibera, poi, si avventura nell’impervio campo del “gender”: «Considerato, infine, che possono verificarsi casi di persone per le quali non vi è corrispondenza tra identità di genere e corpo biologico e quindi le stesse persone sentono di appartenere ad un determinato genere non corrispondente a quello attribuito anagraficamente ».
Cosa centri tutto questo con i tesserini di riconoscimento dei dipendenti, lo si spiega nel passaggio successivo: «Valutato che, se da un lato il tesserino di riconoscimento ha la funzione di consentire all’utente, nel rapporto con i pubblici uffici, di avere un riferimento della persona con cui ha parlato, d’altro lato l’avere un tesserino di riconoscimento consono al proprio genere d’elezione può consentire al dipendente stesso un miglioramento della propria condizione lavorativa». Da qui la conclusione finale: «La Regione Piemonte, per tutto quanto sopra premesso, ritiene opportuno riconoscere ai propri dipendenti del Ruolo della Giunta, che sono tenuti ad esporre il cartellino identificativo e la cui identità sessuale fisica non è corrispondente alla identità di genere, la possibilità di avere un tesserino identificativo (badge) consono al genere d’elezione, a fronte di specifica richiesta».
Ognun si scelga (perché questo è significato in italiano del termine “elezione”) il genere che più gli garba, essendo oramai ridotto il sesso biologico ad un dettaglio irrilevante. Pene, testicoli, vagina, seno, sono minuzie insignificanti, sottigliezze marginali, particolari futili, quisquilie del tutto trascurabili. Per essere uomini o donne, maschi o femmine quel che conta, ora, è ciò che si sceglie di essere. “Genere d’elezione” è questo il nuovo motto della trionfante ideologia gender.
Siamo oramai al comico involontario! Povere istituzioni, costrette dalle lobby gay (Torino Pride GLBT) ad emanare un provvedimento amministrativo che merita un posto d’onore nel museo del ridicolo. Solo che questo allegro nonsense comincia a non divertire più. I negazionisti della teoria del gender urlano le loro tesi a squarciagola e ai quattro venti, mentre tale teoria viene bellamente applicata nei tribunali, nelle scuole, nella moda, e ora anche negli enti istituzionali locali. Il popolo non ride più. È stanco di esponenti delle istituzioni che usano il buon senso come la quinta ruota del carro, e che assomigliano sempre più alla variopinta compagnia imbarcata nella Nave dei Folli dell’immaginifico pittore fiammingo Hieronymus Bosch. No, il popolo non riesce davvero più a ridere.
Pubblicato su "La Croce Quotidiano" del 15 luglio 2015