La “Omoaffettività” : un valore fondante x il parlamento italiano?

di Elisabetta Frezza e Patrizia Fermani

Con sapiente anticipo sull’ultima performance della prima sezione della Cassazione a guida Luccioli (che ha sollevato questione di costituzionalità della norma che prevede lo scioglimento immediato del matrimonio in caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi), la commissione cultura della Camera ha presentato un disegno di legge volto a consacrare nientemeno che la “omoaffettività quale valore fondante di un vincolo  paraconiugale.

Inutile dire che il neologismo non sta ad indicare come vorrebbe l’etimologia – che so – un trend costante di amorosi sensi, oppure la affezione tenacemente concentrata su un oggetto di desiderio sempre uguale, o magari la capacità che abbiano due persone di scambiarsi affetto in parti perfettamente equivalenti. Si tratta invece di un modo per dimostrare, con la parola di nuovo conio, che l’impegno per le attese degli omosessuali non è appannaggio di una sola parte politica, ma occupa le migliori energie di chi, in tempi particolarmente critici, abbia comunque ricevuto dagli elettori il mandato di lavorare per il bene comune.

A ben pensare, molti di quegli elettori erano convinti che un paio di concetti fondamentali sulla funzione, sugli scopi e sui criteri che governano un buon ordinamento giuridico fossero ormai ben noti, o dovessero esserlo, a chi occupa le aule parlamentari. E per venire alla materia in questione, dovrebbe essere scienza comune – a parte ogni manipolazione ideologica – che il diritto privato è dominato dal principio della libertà negoziale sicchè, nei limiti imposti dalla legge a tutela della collettività, ciascuno può regolare a piacimento e con chi meglio crede i propri rapporti patrimoniali.

 

Ma che, d’altra parte, pur nell’ambito del diritto civile, la legge sottrae alla disponibilità dei privati la disciplina dei rapporti relativi alla famiglia, poiché questa costituisce da sempre l’asse portante della intera società di cui condiziona stabilità e conservazione. Così la disciplina del diritto di famiglia assume un rilievo pubblicistico, in quanto va a tutelare un interesse che fa capo all’intera collettività; mentre, per converso, non si può invocare simile tutela quando un analogo interesse collettivo non sussiste.

La pretesa di ottenere la estensione ai rapporti omosessuali della disciplina degli istituti matrimoniali, o anche quella di guadagnare solo un attenuato rilievo giuridico di diritto pubblico – rilievo apparentemente meno impegnativo per il legislatore, ma finalizzato in realtà ad ottenere successivamente la prima – è ingiustificato di fatto e infondato in diritto. Come lo sarebbe la pretesa da parte del quivis de populo di ottenere una scorta armata quale quella assegnata a persona con particolari incarichi di governo, che è necessario proteggere nell’interesse di tutti.

Ma, come sappiamo, all’evidenza delle cose è stata da tempo sostituita la gratuità delle parole, ed ecco che il presidente della commissione cultura Galan, con il robusto appoggio intellettuale di Prestigiacomo, Capezzone ed altri, tutti ansiosi di risollevare l’Italia da una sconfortante insensibilità e ignoranza giuridica (ovviamente misurata su certi limitrofi fari di civiltà) sforna questo modellino di paraconiugio omosessuale che di quella ignoranza, per vero, fornisce prove quantomai eloquenti.

Vale la pena di leggere qualche passaggio significativo del testo e della relazione che lo illustra. 

Illuminante anzitutto il primo articolo, in cui si proclama il diritto di rango costituzionale, dell’uomo e della donna, alla propria piena realizzazione “all’interno della coppia”. In mancanza di riferimenti testuali, si può presumere che questo singolare criterio ermeneutico sia tratto dalla tutela accordata alla famiglia fondata sul matrimonio che, ovviamente, viene originata da una coppia di sposi. Da questa verità lapalissiana discenderebbe la tutela della coppia quale entità giuridicamente rilevante in sé, e quindi tale da non tollerare disuguaglianze di trattamento in ragione del sesso dei suoi componenti.

Sennonchè la coppia presupposta dagli ingenui padri costituenti ha rilievo giuridico proprio in quanto ordinata al matrimonio e quindi in virtù della potenziale attitudine procreativa, quella che assicura il perpetuarsi della specie anche attraverso la continuità che lega le generazioni fra loro. È la funzione che dà rilievo giuridico alla coppia, una funzione che è veramente difficile immaginare per due persone accomunate semplicemente da particolari inclinazioni sessuali. In mancanza di una funzione rilevante per l’ordinamento, il rapporto che intercorre tra due elementi è giuridicamente indifferente (se non rileva ad altri fini, come ad esempio nella compravendita, in virtù di un legame di complementarietà: acquisto una partita di calzini, di orecchini, di scarpe) e si riduce ad un semplice rapporto numerico (due gatti, due parlamentari, due attori, due forme di pecorino).

La coppia riceve tutela dal diritto solo in quanto presupposto di quel matrimonio che, prima di essere un istituto giuridico, appartiene alla legge indomabile della natura.  Così, è senza significato appellarsi a quel principio di uguaglianza diventato buono per tutti gli usi, come aveva paventato con lungimiranza Esposito in anni non sospetti. Invece il disegno della commissione cultura prosegue trasferendo pari pari alla fantomatica coppia omosessuale la disciplina prevista per il matrimonio, con effetti anche un poco esilaranti: come quando si prospetta come ostativa alla stipulazione del patto di omoaffettività il rapporto di affinità in linea retta, cioè quello che già lega, ad esempio, suocero e genero, ai quali sarà precluso – ma la Cassazione, si sa, può fare miracoli! – di coronare il loro sogno di unione omoaffettiva. Naturalmente sono ostativi in primis i rapporti di parentela, nonchè “quelli tra zio e zia e nipoti”, che evidentemente per i nostri aspiranti legislatori esulano dai primi per costituire un genere a parte, diverso sia dalla parentela sia dalla affinità.

Non meno interessanti sono le considerazioni svolte nella Relazione alla Camera, tra cui possiamo indicare alcune a titolo esemplificativo. Così, a sostegno della estensione alle coppie omosessuali del regime successorio, si dice con una certa compunzione che, in mancanza di testamento, è giusto poter accedere alla successione “mortis causa”, facendo balenare perciò l’idea di una ancora inedita successione testamentaria “inter vivos”.

In altro capoverso, poi, si auspica l’avvento “de jure condito” delle nuove normative proposte che, se futuribili, non dovrebbero per ciò stesso essere già “condite”.

Eppure, secondo i nostri giuristi, c’è una lacuna legislativa che deve essere colmata a tutti i costi attraverso questo disegno di legge, con il quale essi si sono assunti il grave onere di riportare l’Italia a quei livelli di civiltà raggiunti con il trionfo omosessualista già da quattordici stati, che soli sarebbero degni della sua antica storia e cultura: conclude così liricamente la Relazione al disegno sul patto di omoaffettività, i cui particolari meriterebbero invero tutti una ben più dettagliata analisi anche sintattica.

Resta il fatto che, al di là di ogni spunto esegetico persino divertente, anche questo intervento si inserisce in un panorama di ottusa irresponsabilità. Quella che consente a ben altri poteri la manipolazione di una opinione pubblica sempre più confusa, abbacinata da miti fasulli, adescata da falsi problemi, e comunque spogliata proprio culturalmente di quel buon senso che è sempre stato e dovrebbe essere le sua difesa naturale.

 

Pubblicato su "Corrispondenza Romana" del 18 giugno 2013

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