Il terzo sesso dell'Australia
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- Pubblicato Lunedì, 10 Giugno 2013 22:08
di Gianfranco Amato
Il cosiddetto diritto all’autodeterminazione in materia sessuale riesce davvero a raggiungere vette vertiginose di parossismo.
L’ultima follia giunge dall’Australia, in particolare dallo stato del New South Walles, la cui Corte Suprema ha pronunciato una sentenza d’appello destinata a far discutere.
La vicenda riguarda il cinquantaduenne Norrie May-Welby, che dopo essersi sottoposto, a ventotto anni, ad un’operazione chirurgica di “affermazione di sesso” (sex affirmation surgery) – quella che una volta si chiamava operazione di “cambiamento di sesso” (sex change surgery) – decide, nel 2010, di non sentirsi più donna e di optare per un sesso neutro. Né masculus né foemina. Norrie ritiene di avere diritto ad un riconoscimento ufficiale della sua nuova sessualità e ricorre ai funzionari dell’anagrafe del New South Walles, i quali in un primo momento lo accontentano attestando nel certificato di nascita la sua neutralità («sex not specified»). Quattro mesi dopo gli stessi funzionari si accorgono dell’assurdità di quel provvedimento, e procedono alla sua revoca.
Norrie decide, a quel punto, di rivolgersi alla magistratura, impugnando la decisione dinanzi l’Administrative Appeals Tribunal, non riuscendo, però, ad ottenere soddisfazione. Il ricorso, infatti, viene respinto, sull’assunto che se può variare l’orientamento sessuale, i sessi restano pur sempre due: quello femminile e quello maschile. Norrie non si dà per vinto e ricorre alla Corte Suprema, la NWS Court of Appeal, trovando, questa volta, orecchie sensibili alle proprie istanze. I tre magistrati che compongono il supremo collegio, infatti, statuiscono all’unanimità che «sotto il profilo interpretativo, il termine sesso non può ridursi, nella sua accezione, ad una dimensione binaria di “maschio” e “femmina”». Esulta Emily Christie, una degli avvocati di Norrie, sostenendo che si tratta di una sentenza storica che rivoluzionerà il sistema legale di certificazione nei documenti pubblici. Nel sistema di common law, peraltro, la decisione costituisce un landmark case, ovvero un caso destinato a diventare un importante e fondamentale precedente.
La sentenza della Corte Suprema del New South Wales, oltretutto, arriva con un tempismo formidabile per i fautori dell’omosessualismo e dei diritti LGBT. Proprio in questi giorni, infatti, il governo federale si prepara ad approvare per la prima volta una legge finalizzata a tutelare «lesbiche, gay, transgender e intersex» da forme di discriminazione sessuale.
Occorre dire, in verità, che l’Australia è sempre stata all’avanguardia in materia. Nel 2011 la Australian Human Rights Commission (AHRC) emanò un interessante documento, intitolato “Protection from discrimination on the basis of sexual orientation and sex and/or gender identity”, in cui distingueva i due classici sessi (maschile e femminile) dai generi che venivano classificati in ben ventuno categorie (omosessuali, bisessuali, transgender, trans, i transessuali, intersex, androgini, agender, crossdresser, drag king, drag queen, genderfluid, genderqueer, intergender, neutrois, pansessuali, pan gender, third gender, third sex, sistergirl, brotherboy). Non si tratta di sinonimi o di semplici variazioni di un unico fenomeno, ma di specifiche e distinte caratteristiche legate al misterioso universo del sesso. C’è chi le definisce perversioni sessuali, e chi invece le qualifica come legittimi orientamenti sessuali, degni di trovare piena tutela giuridica. Basta approfondire, ad esempio, su chi siano i “neutrois” per scoprire un mondo del tutto sconosciuto ai profani.
Adesso l’Australia ha fatto un passo avanti con la citata sentenza del caso Norrie May-Welby vs. NSW Attorney General’s Office, arrivando a sostenere che i sessi non sono più due ma tre. Ci sarebbe da sorridere, se la questione non rivestisse una certa carica di drammaticità.
E pensare che, da povero giurista, il sottoscritto ancora riteneva di doversi rifare a testi legislativi come lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, adottato il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1 luglio 2002, il quale all’articolo 7, terzo comma, prevede testualmente che «con il termine “genere sessuale” si fa riferimento ai due sessi, maschile e femminile, nel contesto sociale», e che «tale termine non implica alcun altro significato di quello sopra menzionato».
E’ proprio vero che la realtà corre sempre più veloce del diritto. Il problema è che il diritto rischia di non riuscire più a disciplinarla quando questa deraglia dai binari della logica e della razionalità.
Fonte. "La Nuova Bussola Quotidiana" del 10 giugno 2013