Eutanasia, suicidio assistito e una pericolosa idea di pietà. Cosa sta succedendo in Europa (e in Italia)

di  Stefano Spinelli
 
Non so se ci si renda conto della reale portata del dibattito sull’eutanasia, in corso in Italia e in Europa. Si sta evidenziando sempre più chiaramente che il punto di approdo di alcune sentenze di giudici nazionali ed europei e di alcune legislazioni permissive di paesi a noi vicini (Olanda, Belgio, Svizzera) non è tanto l’eutanasia, ma il suicidio assistito.

Vediamo perché e quale sia la differenza.

In Italia, Eluana Englaro, una giovane ragazza in stato vegetativo persistente da 17 anni, è stata “accompagnata” a morire mediante un atto drammatico di interruzione dei sostegni vitali di alimentazione ed idratazione. Piergiorgio Welby, malato terminale di distrofia muscolare, ha chiesto di “staccare la spina” del respiratore che gli permetteva di vivere, e la magistratura ha assolto, alla fine, il medico che aveva proceduto.

Queste due vicende hanno aperto la strada all’eutanasia, ossia all’intervento di un terzo a cui venga chiesto di “accompagnare all’esito finale della vita” – come ha detto la Corte di Cassazione – una persona o un malato, allo scopo di porre fine alle sue sofferenze, nonostante l’esistenza di ben precise norme penali che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio.

 

Molti Comuni “illuminati” hanno deciso di istituire appositi registri presso gli uffici di Stato Civile in cui raccogliere le dichiarazioni di volontà di chiunque voglia esprimere anticipatamente quali trattamenti medici si intendano rifiutare o interrompere in caso di successiva impossibilità di manifestare la propria volontà. Si tratta di registri assolutamente inutili, in quanto non previsti da alcuna norma di legge e non dotati dei requisiti minimi di garanzia nella raccolta e nella registrazione della volontà. Ma rappresentano un ulteriore elemento di incertezza, e un grave torto fatto a quelle persone che, in buona fede, ritengano di accedervi, inconsapevoli della loro inutilizzabilità.

Diverse sentenze hanno già affermato che l’amministratore di sostegno, in precedenza nominato dall’interessato per il caso di sua successiva situazione di incapacità, sarebbe autorizzato, in nome e per conto del beneficiario, a negare il proprio consenso ai sanitari al fine di non praticare alcun trattamento medico o di interrompere quelli in essere.

Non vi è alcun limite al diniego di trattamenti, per cui l’interessato o il delegato potrebbero benissimo dichiarare di volere rifiutare o di voler interrompere trattamenti medici del tutto proporzionati alla cura della malattia in atto o addirittura sostegni vitali. Di fatto, è stato richiesto di non sottostare ad interventi medici quali “la rianimazione cardio polmonare, la dialisi, le trasfusioni di sangue, addirittura terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione e alimentazione”. In queste ipotesi non può affatto parlarsi di accanimento terapeutico.

Un domani, nel caso in cui i dichiaranti o i beneficiari si dovessero trovare in dette situazioni (incapacità con necessità di praticare i trattamenti e i sostegni richiesti), cosa accadrà?

E’ evidente che, in tutti questi casi, si vorrebbe obbligare il medico e l’intera struttura sociale a porre in essere atti idonei a determinare la morte del paziente, pur in presenza di cure che potrebbero salvargli la vita.

La motivazione di tutto ciò – si dice – ha a che fare con la “pietà”. Si tratta infatti di persone che si trovano in situazioni di inabilità estrema o di coma, oppure in presenza di una vita indegna di essere vissuta e comunque ritenuta tale da parte di chi rende la dichiarazione.

L’eutanasia dovrebbe interrompere vite umane che non sembrano sopportabili, e la sua giustificazione sarebbe l’esigenza di evitare il dolore determinato da una vita costretta in limiti pietosi e indegni. Essa dovrebbe rappresentare la risposta di oggi al dolore umano.

Qui è il punto. Se si comincia a sindacare quale livello di condizione particolare può essere considerata “non degna di essere vissuta”, chi mai oserà ergersi a giudice per stabilire in quali casi la vita è tale? Perché mai dovrebbero beneficiare dell’aiuto a interrompere anticipatamente la propria vita solo le persone che si trovano in determinate situazioni, che ai più appaiono pietose dall’esterno (coma, malattia o inabilità gravi), e non anche le persone che si trovano in situazioni che potrebbero essere ritenute “soggettivamente” non più sopportabili, come i semplici inabili o i neonati handicappati, o i malati mentali, o gli anziani in genere, magari sulla base di dichiarazioni rese da persone delegate, sulla base del “loro” sentimento di pietà o della “loro” idea di dignità della vita?

Alla fine, la domanda si ridurrebbe – e si riduce – a una. Perché mai dovrebbe beneficiare di eutanasia legale e ottenere un aiuto a morire solo chi si trova in situazioni ritenute “pietose”, piuttosto che, più semplicemente, chiunque voglia consapevolmente porre termine anticipatamente ai propri giorni e lo chieda espressamente?

Che differenza c’è tra la percezione del dolore collettivamente inteso e quella del dolore soggettivamente vissuto da ciascuno? Viene in mente Baudelaire e il suo “male di vivere” (spleen), e il corso naturale di questo male, che viene identificato nella vita stessa.

Se la giustificazione della soppressione di una vita umana è la pietà per il dolore altrui, questa giustificazione inevitabilmente si arricchirà di nuove fattispecie, fino a coprire l’esigenza di chiunque chieda di morire, indipendentemente dalla sua condizione – più o meno pietosa – di vita, indipendentemente dall’esistenza di malattie o di inabilità più o meno gravi.

E’ questo che sta accadendo in Europa.

Il caso della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’eutanasia (caso Grosse c. Suisse), ha scoperchiato il vaso di Pandora.

La decisione europea dà sostanzialmente ragione a una donna svizzera di 82 anni che ha chiesto alle autorità del suo paese di essere autorizzata a procurarsi una dose mortale di “medicamento”, al fine di porre fine ai suoi giorni, “non sopportando di continuare a subire il declino delle sua facoltà fisiche e mentali”. Essa non soffre di alcuna patologia clinica, non ha nessuna malattia, nessuna disabilità. E’ solo un’anziana che vuole morire e chiede di essere aiutata dalla comunità civile.

La Corte Europea, nel decidere la questione sottopostale, afferma che “il diritto di un individuo di scegliere quando e come morire, purché esso sia in condizione di prendere una decisione libera e di agire di conseguenza, costituisce uno degli aspetti del diritto al rispetto della sua vita privata, garantito dall’art. 8 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo”.

Sancire che ciascuno ha diritto di scegliere come e quando morire significa che la comunità civile deve garantire che detta volontà venga attuata, se richiesta liberamente.

Neppure più per pietà, ma per diritto, per conquista civile.

Eppure, da sempre l’uomo ha avvertito che l’adesione alla volontà di chi chieda di anticipare la propria morte non è corrispondente all’esigenza umana più profonda e vera. Da sempre gli stessi medici, tenuti alla cura dei pazienti, hanno affermato che aiutarli a morire non rientra in un comportamento medico deontologicamente corretto. E’ per questo che nel giuramento di Ippocrate, risalente al 420 a.C., sul quale ancora oggi tutti i medici devono giurare, si trova scritto: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”.

A dire il vero, lo stesso giuramento impone: “Similmente, a nessuna donna io darò un medicinale abortivo”.

Quattrocentoventi anni prima della nascita di Cristo!

Siamo alle origini del cuore umano.

E non c’entra nulla la cultura oscurantista e oppressiva della Chiesa cattolica.

La domanda vera è quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli?

@avv_spinelli

Fonte Tempi del 31 maggio 2013i

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