IL BELGIO È FUORI CONTROLLO: OGNI GIORNO 5 MORTI A RICHIESTA

di Gianfranco Amato

La statistica recentemente diffusa sul ricorso all’eutanasia in Belgio – Paese dov’è legale dal 2002, primo al mondo – lascia senza fiato: una media di cinque persone al giorno, col 2013 che con i suoi 1.816 casi ha segnato un aumento del 26,8% rispetto al 2012 (1.432 casi). Si tratta di centocinquanta casi al mese, una media, appunto, di cinque casi al giorno. Dai dati della Commission de contrôle et d’évaluation de l’euthanasie emerge, tra l’altro, che i fiamminghi ricorrono assai più frequentemente all’eutanasia (80%) rispetto ai francofoni, mentre sono gli anziani, tra i 70 e i 90 anni, a rappresentare il 53,5% della cifra totale. Segue la fascia tra i 60 e i 70 con il 21%, e quella degli under 60 che si attesta al 15%. Gli ultranovantenni rappresentano solo il 7%.
Tra casi più clamorosi balzati all’onore delle cronache vi è quello di una donna, Nancy Verhelst, che dopo essersi sottoposta a un’operazione chirurgica per cambiare sesso, e divenuta Nathan per l’anagrafe, ha poi scoperto di non potersi accettare nella nuova veste di uomo, al punto di decidere di togliersi la vita attraverso l’eutanasia, motivata dalle «insopportabili sofferenze psicologiche».
Noto è anche il caso dei gemelli Marc and Eddy Verbessem, i quali hanno deciso di ricorrere all’eutanasia dopo aver scoperto di essere inesorabilmente destinati a diventare ciechi. Potremmo continuare, ma il punto è un altro. Lo ha centrato il professor Chris Gastmans, docente di etica medica all’Università di Lovanio: «Davvero – si è chiesto – l’eutanasia è l’unica risposta umana che sappiamo offrire in simili situazioni?». Di fronte a un’umanità così drammaticamente ferita, davvero la sola opzione che lo Stato è in grado di prospettare è quella di farla finita? La scorciatoia della morte di fronte alla sofferenza, in realtà, è una sconfitta per tutti. Sempre.

L’uomo, ricorda sant’Agostino, è immagine di Dio anche quando si trova «nell’abisso di questo mondo, sbattuto dai continui marosi». Ma senza quel Dio che «ha scolpito l’immagine nell’uomo al momento della creazione, esso rimarrà per sempre nell’abisso». Sant’Agostino già nel IV secolo dopo Cristo aveva avuto parole chiare sull’eutanasia. Lo dimostra l’attualissimo giudizio lasciatoci nella sua nota Epistula 204: «Non è mai lecito uccidere un altro, anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».
È vero che per mostrare l’inaccettabilità dell’eutanasia è più che sufficiente ricorrere alla ragione, ma di fronte a casi come quelli che affiorano dal Belgio (e ora drammaticamente anche in Francia) occorre andare alle fonti della nostra civiltà europea. E qui la realtà appare in tutta la sua eloquenza. Ogni tentativo volto a eliminare Dio dall’orizzonte culturale corrisponde a un drammatico imbarbarimento.
Non si può davvero considerare progresso il fatto che l’uomo arrivi a privarsi di una dimensione trascendente e accetti di ridursi a "res", a mero materiale biologico. L’Europa che decide di disconoscere le proprie radici cristiane è un’Europa rassegnata alla disperazione dello scetticismo nichilista di chi non è più in grado di dare un senso alla propria vita e che arriva a trovare nella morte una facile via di fuga. Una via che insieme al corpo uccide la speranza. Si torna a Seneca, il principe dello stoicismo, quello che nelle lettere a Lucilio, dopo aver precisato che «c’è un solo modo per entrare nella vita, ma molte possibilità di uscirne», si domandava: «Perché dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso andarmene sfuggendo ai tormenti e alle avversità?».
Si vuole tornare all’ideale dell’antico precettore di Nerone, per cui «si sceglie la morte come si sceglie la nave quando ci si accinge a un viaggio, o si sceglie una casa quando si intende prendere una residenza». Si vuole fare un salto indietro di duemila anni, come se venti secoli di cristianesimo fossero passati invano. Un salto nel tempo che rischia di diventare un salto nell’abisso.

Pubblicato su "Avvenire" del 25 giugno 2014

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